venerdì 26 aprile 2013

Eliogabalo di Antonin Artaud - Recensione


Per scrivere questo romanzo storico particolarissimo, Antonin Artaud, poeta e drammaturgo dalla vita tormentata, si avvalse di fonti diverse e opere di erudizione varie – da Filostrato a Lampridio – e della volontà precisa, tutta sua, di mettere in luce in maniera preponderante il tema metafisico della contrapposizione fra principio maschile e principio femminile, nutrendolo di figure costanti: l'oro, il sangue, la pietra, lo sperma quali mezzi di suggestione... Ne nacque una storia che si delinea come intrisa di erotismo ed esoterismo, di storia e fantasia: tutti argomenti cari ad Artaud. Una rievocazione storica dal forte impatto religioso, ambientata in Siria, una terra descritta come l'effigie vivente di una mescolanza di culti: luna, sole, uomo, donna... all'insegna di un paganesimo idolatrico che stupisce gli occidentali. A tal proposito si sviluppa nel romanzo la critica di Artaud al nostro comune senso religioso. A quei cristiani che immagina accusare i culti pagani di Siria per la confusione fra immagini e princìpi che sembra pervaderli, Artaud risponde con una delle sue provocazioni: non è forse lo stesso anche per la religione cristiana? non abbiamo anche noi le nostre effigi? E non si è messo forse al posto della conoscenza il misticismo? Le religioni antiche, secondo Artaud, non hanno separato il cielo dall'uomo, l'uomo dalla creazione intera. Solo in seguito, «il cattolicesimo e il buddhismo hanno volontariamente chiuso questa porta, dicendoci che non avevamo bisogno di sapere. Io ritengo che non abbiamo bisogno che di sapere».
Platone parlò della natura degli dèi, identificandoli con dei princìpi. È il popolo ad aver voluto attribuire le figurazioni antropomorfiche, dimenticando tale nozione. Andando oltre questa affermazione, Artaud giunge a sostenere che i princìpi non possono nemmeno bastare a se stessi: «non valgono che per lo spirito che pensa, ma al di fuori dello spirito che pensa, un principio si riduce a niente». Al di sopra di tutti i princìpi individua inoltre il principio maschile e quello femminile, ai quali è sospesa la vita cosmica unica. Per Artaud, considerare solo la contrapposizione fra di essi, insistere nel separarli nettamente, non può che portare a vederli prima o poi ricondurre ad un antagonismo che è loro intrinseco e poi a volerli controbilanciare, provocandone una fusione. Questo fine si può perseguire unicamente con l'uso delle armi, del sangue e della guerra. «Eliogabalo realizzò in se stesso l'identità dei contrari, ma non senza fatica bensì attraverso una lotta ostinata e astratta fra il Maschile e il Femminile».
Questi, dunque, i temi portanti del romanzo, insieme alle contraddizioni di ogni uomo, che sono quelle della stessa civiltà moderna, l'appello reiterato ai princìpi, l'accusa rivolta ad una cultura (quella occidentale) troppo sicura di sé, in un'epoca di dramma storico-politico che è quello del periodo in cui viene scrittoHéliogabale (apparso nel 1934). Ma è, Héliogabale, pur attraverso la convenzione storico-figurale, l'uso di maschere ed emblemi, anche un romanzo con una forte proiezione autobiografica. Eliogabalo un po' come Artaud: l'uno anarchico e in rivolta generale, critico contro un'intera civiltà istituzionalizzata (l'impero romano), l'altro abitato perennemente da una profonda inquietudine, dalla ricerca dell'assoluto oppure rien, niente. Ambedue oggetto di uno smacco nella vita, della decadenza e delle catastrofe.
Artaud tratta i molteplici argomenti che gli sono cari sottoponendoli allo sviluppo di teoremi, prima illustrati poi confutati, in una continua, e per il lettore stimolante, rottura degli equilibri.
Nato nell'anno 204 dalla famiglia del sacerdote Bassiano, Eliogabalo (che prenderà questo nome solo in seguito) è figlio di Giulia Soemia, a sua volta figlia di Bassiano. Siamo ad Antiochia, durante il regno di Caracalla. Il principe siriano cresce attorniato da donne, la madre, la nonna, le zie, in un'epoca in cui «tutti fornicavano con tutti né si saprà mai dove e da chi fu realmente fecondata sua madre». A cinque anni Eliogabalo viene nominato sacerdote del Sole, il culto praticato nel regno d'Emath e basato sulla deificazione del principio virile; vive nel tempio di Emesa (oggi Homs), gli si fanno compiere dei riti che non comprende, ma che lo divertono, gli si fanno indossare vesti preziose... La sua bellezza è sorprendente e va di pari passo con una spiccata intelligenza ed uno sviluppo precoce che lo porta a capire fin da ragazzo l'importanza di ciò che sente come senso d'unità. Dimostrerà un vero accanimento a far dimenticare la sua famiglia e il suo nome in quanto soggetti umani e a identificarsi col dio che li copre e che essi rappresentano. Intenderà col suo operato «ridurre la molteplicità umana e ricondurla col sangue, la crudeltà, la guerra fino al sentimento dell'unità».
Nel 217, non ancora quattordicenne, Eliogabalo è dunque un ragazzo dalla perfetta bellezza, un efebo che saprà usare il suo fascino per gli scopi che saranno utili al suo regno. Infatti, succeduto a Caracalla l'inetto Macrino quale Re di Roma, il piano escogitato da Giulia Mesa (nonna di Eliogabalo, poiché madre di Giulia Soemia) per far tornare sul trono i Bassianidi va in porto ed Eliogabalo è acclamato imperatore.
Per ottenere questo e vincere la battaglia contro le coorti di Macrino, Giulia Mesa è stata capace di convincere i soldati siriani, portandoli dalla parte sua e del nipote e giocando l'arma della lusinga in un momento di sostanziale anarchia, con Macrino a Roma, abbandonato alle mollezze e per nulla occupato dalle faccende della Siria. La battaglia contro Macrino è l'unico episodio militare, l'unica occasione della vita in cui Eliogabalo dia prova di vigore, secondo gli storici. Per il resto il nuovo re è più che mai dedito ai riti del Tempio, alle cerimonie del sole, insegnatili dall'amato precettore eunuco Gannys, il previdente, il sagace. (E per far da contrappeso alla serietà di quest'ultimo, Eliogabalo ha come amico il grottesco Eutichiano, il buffone, altro eunuco messogli a fianco dalla nonna Giulia Mesa).
Si può quindi dire che Eliogabalo è una sorta di re fantoccio, ci si serve di lui, tutti lavorando per lui, o fingendo di farlo, come la zia Giulia Mamea, la quale in realtà complotta preparando il futuro al proprio figlio Alessandro Severo, perché diventi il prossimo imperatore.
Ma in realtà, sostiene Artaud, Eliogabalo sa lavorare anche per se stesso; «compreso tutto l'intrigo – aiutato da Gannys – si propone di approfittarne». Da tutti questi riti, dalla conoscenza di nomi e di simboli, di forze e di dèi Eliogabalo trae il suo orgoglio di re, ma anche – avverte Artaud – «nel suo organismo infantile una confusione e un'angoscia che non si fermeranno più».
Eliogabalo, comparso storicamente in un periodo d'anarchia, finisce così con l'identificarsi nel suo dio, un dio unico che è il sole e viene preso da questo magnetismo dei contrari: da un lato il dio, dall'altro l'uomo. Eliogabalo è un anarchico nato, che mal sopporta la corona e l'ordine, ma prima di tutto è anarchico verso se stesso e contro se stesso. Incoronato alla fine del 217 (e le celebrazioni continueranno fino alla primavera dell'anno seguente) Eliogabalo trascorre l'inverno a Nicomedia, dove inizia – così afferma lo storico del tempo Lampridio – a dedicarsi al vizio e alla lussuria comportandosi in maniera definita «disgustosa, ammettendo gli uomini a un reciproco commercio di turpitudini». Entra in Roma una mattina di marzo del 218; davanti a lui, su un immenso carro basso, trascinato da trecento tori e preceduto da altrettante fanciulle dai seni scoperti, è stato posto il Fallo Sacro del tempio di Emesa, il fallo solare, entro una gabbia monumentale. Entra in Roma fra musiche e acclamazioni, col passo di una danza e la professione di fede pederastica. Da imperatore si comporta da libertario irriverente; nella prima riunione coi grandi dello stato, i nobili, i senatori e i legislatori chiede loro se anch'essi hanno praticato la sodomia, quindi caccia dal Senato gli uomini e mette le donne al loro posto: che tocchi a loro, generatrici di vita, fare le leggi. Sfida ogni pudore nelle assemblee e di fronte al popolo, si veste sovente da prostituta e si presenta alle porte dei templi degli dèi romani, fa eleggere un ballerino a capo della guardia pretoriana: sono tutte provocazioni, atte a confermare il suo spregio per l'ordine precostituito, la sua convinzione che la debolezza sia in realtà forza, che sia da irridere la pretesa di grandezza dei vecchi monarchi romani.
Eliogabalo continua la sua impresa di de-moralizzazione della società in cui vive, di degradazione dei valori, così quando attribuisce le cariche a seconda della dimensione del membro dei propri ministri, così quando trasforma l'oscenità in abitudine.
Capace di grandi crudeltà, di castrare i parassiti di palazzo, di uccidere il precettore che gli rimproverava gli eccessi, è altresì organizzatore di feste continue, di pièces teatrali a palazzo, ove introduce la poesia, tramite rappresentazioni al naturale della favola di Venere e Paride. Gli si riconosce anche una grande liberalità verso il popolo, col quale piange le miserie, attraversando i mercati e le strade. Del resto il popolo non è mai sfiorato dalla sua tirannia sanguinaria; sono gli aristocratici, i pederasti della sua corte ad esserne colpiti, alla pari di altre rivoluzioni di palazzo. Infatti, pur essendo questo lavoro di distruzione sistematica sotto gli occhi di tutti, nessuno mai protesta platealmente. Eliogabalo si sposa tre volte, anche in tal caso sfidando le convenzioni, visto che una delle sue mogli è la prima vestale (colei che è guardiana del fuoco sacro), con un intento blasfemo e sacrilego, rimproveratogli dagli storici del tempo. E passa di moglie in moglie, di vestito in vestito, di festa in festa, di cocchiere in cocchiere con quell'«insaziabile febbre dello spirito, di un'anima assetata di emozioni» come dice Artaud. Sotto il suo regno, nessuna guerra.
Ma ormai tutto in lui è troppo, e l'eccesso comincia ad essere mal digerito.
Le trame della zia Giulia Mamea si dipanano, il cugino Alessandro Severo viene imposto ad Eliogabalo e lui accetta, sia pur malvolentieri, di adottarlo ed istruirlo. Ma presto cresce la consapevolezza di una scelta: o salvarsi, eliminando lui, o lasciargli campo libero. Eliogabalo cerca la salvezza; i tentativi per uccidere il cugino falliscono, la polizia di palazzo – sobillata da Giulia Mamea – è ormai contro Eliogabalo. Giunge così la morte, e una morte atroce per lui e sua madre, all'ennesima tentata aggressione a Alessandro Severo. Inseguiti nella notte dell'agguato, è l'11 marzo 222, vengono acciuffati: Eliogabalo è finito, nel tentativo di fuga, dentro le pozze delle latrine, fra gli escrementi e la melma. «È una scena da macello, uno scempio ripugnante, un antico quadro da mattatoio» con i cadaveri poi trascinati attraverso la città, fra le urla dei patrizi e della folla che li vorrebbe gettare nelle fogne. Finiranno, invece, abbandonati nel Tevere, dopo i tentativi truculenti di farli passare per le fogne.
«Così finisce Eliogabalo» Artaud in chiusura del libro «senza epitaffio e senza tomba, ma con dei funerali atroci. È morto vilmente, ma in stato d'aperta ribellione; e una simile vita, coronata da una tale morte, non ha bisogno, mi pare, di conclusione».


a cura di Annagloria Del Piano

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