Classico della letteratura americana, “Il grande Gatsby” ci proietta in una New York degli anni ’20 che sta iniziando a scoprirsi attraente, pulsante, viva, ma, al contempo, superficiale e mondana. Ed è in una zona specifica, il West Egg, a sud di Long Island, che risiere il misterioso Gatsby nella sua magnifica villa con spiaggia privata.
Di lui si sa poco o nulla, e molte voci circolano
sulle sue origini, sui suoi soldi: c’è chi afferma, ma non tanto convinto, che
ha studiato nella prestigiosa università di Oxford, c’è chi dice che ha
commesso un omicidio…Del resto, il grande uomo, arricchitosi chissà come, non
fa nulla per eliminare queste dicerie, alimentate come un fuoco dalla gente “da
bene” che frequenta più che assiduamente le sue sfarzosissime feste, i suoi
opulenti balli di gala, le sue “intime” soirée. Anzi, sembra quasi assecondare
questo alone di mistero, come quando, a più riprese, durante la storia,
fornisce false verità al suo giovane, squattrinato amico e vicino di casa, Nick
Carraway. Quest’ultimo, proveniente dal
Midwest, ragazzo di periferia che vuole far soldi giocando in borsa e vendendo
azioni, non può che essere il narratore perfetto della storia: con estraneità
osserva il modus faciendi tipico
della moderna aristocrazia cittadina, i vizi del ciarlare, del bere,
dell’adulterio non nascosto, anzi quasi ostentato (ove l’ostentazione è una
chiave di volta principale dell’intero racconto), di Tom Buchanam, il marito
razzista, il rozzo e bruto giocatore di football, di Daisy, sua cugina di
secondo grado; sarà l’unico al quale Gatsby realmente si avvicina, il solo e
ultimo amico che gli resta vicino durante l’intera vicenda.
Neppure egli saprà mai chi è in realtà Gatsby, se non a
fine romanzo; e resta sconvolto, stranito dalle frequentazioni abituali
dell’uomo misterioso, come l’avaro,
furbo ebreo Wolfsheim (che falsò il campionato di baseball del 1919 perché “ne
ha visto la possibilità”); avvolto ma non trascinato da quel turbine in
costante movimento che è la New York dei ricchi, moto che non riduce tuttavia
un senso di solitudine palpabile nell’aria della città; celato, pressato dalla
personalità stravagante dell’uomo dall’autovettura color crema (le sue stesse
peripezie personali cozzano con l’evoluzione
della relazione tra Carraway e la famosa giocatrice di golf Jordan Baker,
togliendole spazio; inoltre gli faranno anche dimenticare il suo compleanno).
Ma è veramente Grande, Jay Gatsby? Man mano che
la storia procede vediamo come sfarzo,
gloria, potere, ricchezza sono orpelli, decorazioni, apparenze, luce per
attirare le lucciole, anzi, l’unica lucciola di cui l’uomo è veramente innamorato.
Proprio Daisy Buchanam. Si scopre quindi che un giovane Gatsby, all’epoca
ancora James Gatz, un militare in carriera di umilissime origini, si era
innamorato, anni addietro, della fascinante, giovane, bella e nobile Daisy. Le
feste ora son un pretesto per rincontrarla (ma la donna non parteciperà mai a
nessuna di queste), per rivivere il loro amore, per ritornare insieme dopo i
lunghi anni, contati dal protagonista con l’angoscia e l’ansia tipica
dell’innamorato. E quasi sembra che l’incontro (organizzato proprio grazie a
Carraway) e le parole di Gatsby possano far rievocare in Daisy l’antico amore,
ma ancora il timore di rivelazioni di azioni misteriose e non narrabili
riportano indietro la donna, frantumando il sogno di cui Gatz si era alimentato,
la folle, appassionata idea che aveva fatto nascere Jay Gatsby. Il Grande Gatsby, diventato Grande per il cieco,
imperituro amore, si frantuma, e l’esito finale delle sue vicende lascia
un’amara consapevolezza della fragilità della costruzione della sua figura,
della superficialità delle sue “amicizie”, dell’ipocrisia e indifferenza degli
assidui frequentatori della sua opulenta casa, della sua solitudine.
L’opera non può non acquistare nuovo vigore e nuovo
interesse per i curiosi lettori, ora che è ritornata in auge, in questa
generazione, grazie alla quinta trasposizione cinematografica del 2013 (regia
di Baz Luhrmann, con Leonardo di Caprio
nel ruolo di protagonista). È uno dei libri che non può mancare sulle proprie
mensole, nel quale Fitzgerald, quasi accomunato al destino del suo personaggio - vivendo di uno straordinario successo per
poi morire dimenticato nel 1940 - ha saputo magistralmente descrivere e
immortalare l’emergente New York del tempo. È ne “Il grande Gatsby” che il
fascino della Grande Mela viene per la prima volta immortalato, con le sue
contraddizioni ed estremizzazioni eccellentemente descritte nell’arco di
un’afosa estate; un fascino che riecheggia tuttora, rendendo l’opera un classico costantemente
moderno.
a cura di Carmine Panico
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